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Attualità | 24 aprile 2020, 10:39

Coronavirus, il sociologo Petrillo: "Attenzione alla fase 2, le distanze aumentano le disuguaglianze"

Abbiamo chiesto al genovese Agostino Petrillo, architetto e filosofo, professore associato al Politecnico di Milano e sociologo, un’analisi sulla condizione in cui ci siamo trovati a vivere dallo scoppio della pandemia

Coronavirus, il sociologo Petrillo: "Attenzione alla fase 2, le distanze aumentano le disuguaglianze"

Dopo quasi due mesi di quarantena dovuta al coronavirus, e vicini alla “Fase 2”, con la quale si potrebbe tornare, lentamente, a uscire e lavorare, ma con le dovute precauzioni – distanziamento tra le persone, guanti e mascherine -, abbiamo chiesto al genovese Agostino Petrillo, architetto e filosofo, professore associato al Politecnico di Milano e sociologo, un’analisi sulla condizione in cui ci siamo trovati a vivere.  Potevamo essere preparati alla pandemia? E come sarà dopo il coronavirus?

Per la sociologia come si comporta un gruppo sociale di fronte a un fenomeno inaspettato e di cui non ha alcuna esperienza, sebbene le epidemie e pandemie si ripetano?

Teoricamente la sociologia non dovrebbe essere un sapere che anticipa gli eventi, ma che ne fa una riflette dopo che sono avvenuti. In questo caso, però, non ci si può limitare alla diagnostica, come ha fatto buona parte della sociologia del ‘900, ma si dovrebbe tentare un salto epistemologico e introdurre parametri conoscitivi nuovi, che tengano conto di fattori completamente imprevedibili. E per me che mi occupo di territorio le questioni spaziali diventano centrali quando si deve gestire un’epidemia. Bisogna avere strumenti, quindi, in grado di prevedere gli eventi e di comprenderne i possibili sviluppi e dinamiche. Pensiamo alle implicazioni cui ha portato la pandemia: trasformazioni ambientali e cambiamento del rapporto uomo-natura; si tratta di grosse questioni, non ci si può limitare alla piccola analisi locale o alla gestione dell’evento in modo solo circoscritto. Dobbiamo imparare a pensare nuovamente in grande e anche a rischiare dal punto di vista teorico e questo investe anche la dimensione dell’analisi sociologica, e, pur nella sua carica e potenza di rottura e di frattura col passato, si tratta di un imprevisto che in qualche modo era configurabile: si sarebbe dovuto seguito il trend delle nostre società degli ultimi 40 anni, perché ci indirizzavano già nella situazione in cui siamo precipitati oggi.

Quarantena: cosa significa viverla in condizioni socio-ambientali diverse?

Si tratta di una fase che sottolinea e accentua le disuguaglianze già esistenti nel modo di vivere. Pensiamo a chi deve continuare a spostarsi per lavoro, ma col diradamento dei mezzi di trasporto o con la chiusura di buona parte dei servizi: l’isolamento delle periferie è diventato più drammatico. O consideriamo le disuguaglianze in ambito scolastico. Non si può pensare che la didattica a distanza come a una panacea, anzi, evidenzia le differenze tra un nucleo famigliare e l’altro. Lo stare nell’edificio scolastico rappresenta un momento di integrazione e uguaglianza, pur nella differenza, e non è il tablet a includere. Pensiamo anche a chi non ha ancora il collegamento internet, o a famiglie in cui 4 o 5 membri convivono in pochi metri quadri: quando lo studente può trovare la tranquillità per seguire la lezione virtuale? La didattica avviata nella fase 2 o 3, quindi, dovrà tenerne conto, perché in realtà il rischio è quello di accentuare disuguaglianze già profonde e in aumento.

A proposito di scuola a distanza, anche il lavoro si fa così: cosa ne pensa?

Lidea che sia possibile lavorare in remoto circola almeno da quando la Rete si è affermata a livello mondiale, ma dopo un momento di entusiasmo, alla fine degli anni ’90, c’era stato discreto passo indietro, perché era emerso che alcune attività necessitavano di presenza fisica e che le imprese funzionavano meglio, anche quelle che lavorano nell’immateriale: il passaggio di competenze tra persone non funzionava molto bene col rapporto in videoconferenza, la presenza era sempre preferibile alla relazione telematica. Oggi la questione si ripropone in modo prepotente, conservandone, però, tutti i limiti. Pensiamo per esempio al mio lavoro: per fare un gioco di parole, direi che la didattica a distanza rischia d’essere la distanza della didattica, perché l’università è principalmente luogo di confronto, dibattito e rapporto con gli studenti. Mi preoccupa, infatti, l’eccessivo entusiasmo con cui parte del mondo accademico ha accettato il telelavoro.

La globalizzazione pensa si sia accentuata in questo periodo o che sia il contrario?

Sicuramente il virus ha dato un’accelerata alla globalizzazione dell’intelligenza: ci siamo sentiti davvero all’interno di una comunità scientifica più ampia di quella in cui in generalmente viviamo, ma con i limiti di cui si diceva prima. Sotto il profilo economico, invece, è probabile che il virus ne abbia rallentato e modificato il processo, perché credo che si assisterà a un ridimensionamento, soprattutto per la delocalizzazione completa di alcune catene produttive. L’esempio più citato è quello della produzione di mascherine, ma probabilmente si scoprirà di aver bisogno di una produzione specifica locale di altri prodotti e quindi ci sarà la riscoperta dell’economia essenziale.

Ci si prepara alla “Fase 2”, tra distanziamento sociale e limitazioni: quali ricadute sociali dobbiamo immaginare in una città come Genova?

Penso che quando le persone potranno uscire ci sarà una forte spinta a riallacciare i legami sociali: ma se i contatti saranno centellinati e circoscritti, non posso immaginare quale potrebbe essere la reazione. Consideriamo, infatti, alcune dimensioni dello svago sociale, come la “movida”: per l’universo giovanile non rappresenta solo il momento ricreativo, ma è indispensabile anche per rigenerare forze e potenziale creativo; si tratta, quindi, di un aspetto non marginale del mondo del lavoro moderno. Come si potrà ridimensionare questo? Si aprono interrogativi cui i politici penso abbiano scarsa capacità di dare risposte brillanti, quindi il timore è che prevalga, come spesso capita, una mentalità di tipo burocratico, che disciplini i comportamenti al di là delle ricadute complessive. Quindi la fase 2 è complessa e anche importantissima nell’anticipare un’eventuale fase 3, perché in questa si gettano le premesse per il dopo, col rischio che alcune norme diventino le linee direttrici del mondo dopo il coronavirus. Ci vorrà grande cautela e intelligenza da parte dei politici nel regolamentare le fasi del processo.

Si prevedono fenomeni post-coronavirus?

Se dovessero permanere a lungo le condizioni in cui ci siamo trovati è facile pensare che qualcuno possa scegliere di vivere al di fuori delle grandi concentrazioni urbane. Recentemente, infatti, Stefano Boeri e Massimiliano Fuksas hanno portato al centro dell’attenzione la riscoperta dei nostri borghi e dei piccolissimi centri. Riscoprire l’Italia minore e ripensare alle geografie territoriali umane, alla luce del virus, mettendo mano a processi che già erano necessari prima - e che oggi diventano impellenti e irrinunciabili nelle condizioni nuove - potrebbe dischiudere orizzonti interessanti, ma naturalmente con una serie di trasformazioni della vita urbana che sono difficili da valutare e che potrebbero non essere così gradevoli.  Pensiamo per esempio alle immagini spaventose delle città compartimentate dal plexiglas, agli spazi pubblici ripensati in chiave di distanziamento sociale: tutte le dimensioni della riunione, della manifestazione pubblica sarebbero tragicamente cancellate. E comunque l’idea del piccolo e medio centro rischia d’essere un po’ illusoria, perché in Lombardia i piccoli centri sono stati i primi focolai del virus, dal momento che l’interazione sociale è, forse, storicamente maggiore di quella che si ha nelle città, in cui c’è una prossimità fisica che, non sempre è interazione sociale. Oppure ci sarebbe l’isolamento, di cui abbiamo testimonianze storiche interessantissime nella Amburgo di fine ‘800, in cui si scatenavano ciclicamente le epidemie di colera, durante le quali i ricchi scappavano nelle ville di campagna, mentre i poveri morivano in città. Il rischio è che ci si trovi in queste situazioni, ma al momento si tratta solo di illazioni senza fondamento.

Medea Garrone

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